Intervento del Sottosegretario Mantovano al convegno “Magistrature a confronto per l’indipendenza del giudice”

16 December 2022

Intervento del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alfredo Mantovano, al convegno “Magistrature a confronto per l’indipendenza del giudice”, organizzato da Associazione nazionale magistrati amministrativi, Associazione nazionale magistrati e Associazione nazionale magistrati della Corte dei Conti presso il Circolo magistrati della Corte dei Conti, a Roma.

1. La parola chiave delle riflessioni del vostro convegno è ‘indipendenza’. È il fondamento costituzionale di ogni magistratura; è la tutela per il corretto esercizio della funzione di magistrato; è la garanzia di obiettività per ogni persona che abbia a che fare con la giurisdizione. Chiama in causa l’impermeabilità verso condizionamenti o intrusioni dall’esterno del giudizio. Condividiamo tutti l’obiettivo che il procedimento, sia esso penale, civile, amministrativo, contabile venga definito, nel confronto fra le parti, da un giudice ‘terzo e imparziale’, senza interferenze, e quindi ‘indipendente’.

Vorrei soffermarmi non su quello che ritengo condiviso, ma su quello che presumibilmente è controverso: e cioè i pericoli dell’indipendenza provenienti dall’interno della giurisdizione. 

2. Sono trascorsi un po’ di decenni da quando - più o meno all’inizio degli anni 1960 - una parte della magistratura italiana, non sempre maggioritaria ma spesso culturalmente egemone, ha scoperto e ricoperto un ruolo di giustizia intesa in senso lato, e quindi in qualche modo anche di giustizia sociale, che l’ha condotta oltre i propri confini istituzionali: per un verso assumendo la veste di vindice del malcostume della politica, per altro verso di supplenza di decisioni che si riteneva che la politica dovesse adottare. È avvenuto in parallelo a un progressivo decadimento della politica, e a una frequente inerzia delle amministrazioni pubbliche su fronti importanti e socialmente rilevanti: penso, fra gli altri, all’ambiente o all’urbanistica.  

Ma è altrettanto indubbio che la “supplenza” non è stata soltanto una scelta di necessità, forse talora comprensibile per sanare situazioni intollerabili: è divenuta presto una categoria ideologica e una forma di controllo delle scelte della politica, fino a sostituirle con sentenze, ordinanze e decreti. 

In quest’ottica il magistrato ha rivendicato per sé un ruolo di diretto interprete della volontà popolare, secondo griglie ideologicamente orientate: in nome dell’attuazione della “sovranità popolare”, il giudice si è ritenuto chiamato a superare il tradizionale quadro di riferimento dei diritti con una esegesi “costituzionalmente orientata”, con una interpretazione praeter, se non contra, legem. Il punto di arrivo di queso percorso è oggi il frequente superamento della norma positiva, e la creazione della norma per via giurisprudenziale. 

3. Questo sviluppo non è avvenuto in modo nascosto, è enunciato in pubblico da decenni. Agli inizi degli anni 1990 il prof Gustavo Zagrebelsky indicava come inevitabile l’intervento della giurisdizione oltre i suoi tradizionali confini: “[...] molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte”.

Come si vede, l’aggiramento dell’autorità democratica rappresentativa è proposto come qualcosa di salutare  e di raccomandabile: non è bene che il luogo della decisione sia ancora il Parlamento, perché in esso avvengono scontri di parte  (ciò che per la verità in un Parlamento che funzioni costituisce un profilo fisiologico, non patologico: le Assemblee elettive rappresentano le differenti posizioni esistenti nel corpo sociale).  E’ opportuno invece che passi al giudice, in quanto gestore di una “procedura” soft e meno conflittuale. 

Oggi lo stesso prof Zagrebelsky rende il discorso ben più esplicito quando afferma che “Nello Stato costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora ribolle sotto lo strato delle leggi”. Intendiamoci, sarebbe interessante una riflessione sui limiti della legge positiva, e sulla crescente distanza che la legge positiva ha manifestato - soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - rispetto ai fondamenti di un diritto conforme alla natura dell’uomo; ma non è ragionevole denunciare i limiti dell’attuale produzione normativa, e prospettare come rimedio la dilatazione dell’arbitrio del giudice. 

4. I rischi dell’adesione a questa prospettiva sono evidenti. Quando Zagrebelsky invoca il predominio della “discrezionalità del giudice necessaria per apprezzare le caratteristiche specifiche dei casi concreti”, la prima domanda da porsi è: qual è la griglia dei principi per l’esercizio di quella “discrezionalità”? E quando fa riferimento ai “criteri (…) di “giustezza” tratti dalla dinamica sociale”, il quesito è: chi elabora tali criteri, di quali criteri si tratta, chi conferisce significato alla “dinamica sociale”, e in virtù di quale mandato? E infine, e per giungere al tema del convegno, quanto è in salute il bene ‘indipendenza’ se il magistrato lo interpreta fino a sconfinare nelle sfere di competenza di altre istituzioni, e addirittura sul terreno della scienza?

Sì, perché il superamento dei confini della giurisdizione interviene, oltre che nella formazione della norma, e quindi in direzione del Parlamento, su terreni altrettanto cruciali come l’azione di governo o le acquisizioni della scienza. Gli straripamenti sulle scelte di governo sono facilmente riscontrabili: basta pensare per tutti alle politiche dell’immigrazione o della sicurezza, o alle ricadute di taluni provvedimenti giudiziari sulla realizzazione delle opere pubbliche. Al netto della corruttela o della scarsa professionalità di pubblici amministratori e di pubblici funzionari, troppe opere pubbliche non vengono realizzate a causa degli allungamenti dei tempi derivanti da interventi giudiziari che alla distanza si rivelano impropri. Poniamo a confronto la quantità di procedimenti penali avviati per abuso d’ufficio con l’entità prossima allo zero di condanne divenute definitive per tale titolo di reato. Ma nel frattempo quanti e quali costi ha pagato l’amministratore pubblico colpito dall’indagine e l’azione amministrativa dell’ente interessato?

5. Tutto questo ha una sua evidenza. Non si fa invece analoga attenzione all’interferenza che nell’ultimo quarto di secolo provvedimenti giudiziari hanno avuto e hanno in questioni medico-scientifiche: dall’ILVA fino al procedimento probabilmente più eclatante, quello che ha bloccato l’azione congiunta dell’Unione europea e del Governo italiano contro la diffusione del batterio della Xylella fra gli ulivi del Sud delle Puglie. In questo caso il procedimento penale, concluso con un decreto di archiviazione che ha riprodotto la richiesta della Procura, così come era avvento qualche anno prima per il decreto di sequestro, ha concorso a provocare un danno quantificato come largamente superiore al miliardo di euro. 

Se alla fine del percorso la rivendicazione dell’autonomia e della indipendenza arriva al punto da prescindere dal rigore e dall’evidenza scientifici, e se la dimostrazione dei nessi di causalità fisica diventa un fastidio, la riflessione sull’indipendenza è essenziale: la nostra Carta fondamentale tutela l’indipendenza ma, come tutti i beni, non in termini assoluti, bensì nel bilanciamento con altri beni, pure importanti.

Sottolineo questo aspetto con preoccupazione. Qualche giorno fa la funzionaria della Cancelleria della sezione di Cassazione nella quale ho lavorato fino a due mesi fa mi ha consegnato, oltre al blocco delle ultime sentenze da firmare, anche la toga che ho indossato per circa 40 anni: ho avuto una stretta al cuore, perché ho avuto la materiale consapevolezza che non la indosserò mai più. La toga per ciascuno di noi è l’emblema della nostra indipendenza: eguale per tutti nel suo colore nero, lunga perché non traspaia nulla se non lo sforzo del confronto fra la norma e il caso concreto. Proprio in nome dell’indipendenza, quella toga va difesa così come è, resistendo a chi vuol farle assumere colorazione e lunghezza differente a seconda dei giudizi. 

Vi ringrazio.