Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 della Corte d’Appello di Roma, l'intervento del Sottosegretario Mantovano

25 Gennaio 2025

L'Intervento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, alla inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 della Corte d’Appello di Roma.

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Illustre Presidente, Signor Procuratore generale, signori avvocati, autorità tutte.

Non entrerò, perché non mi compete, nel merito dell’andamento della giustizia nella Corte di appello di Roma, se non per manifestare, a nome del Governo, gratitudine per il lavoro svolto in tutti gli uffici giudiziari in cui il distretto si articola. Ho memoria non così remota della qualità e della quantità dei carichi esistenti in questo territorio - oltre che nella Corte - nelle Procure, nei Tribunali, negli Uffici dei Giudici di pace, per aver trascorso in queste aule qualche anno della mia vita da magistrato. E quando parlo delle varie articolazioni del distretto faccio riferimento non soltanto ai magistrati, ma anche al personale delle cancellerie e agli avvocati.

Poiché non intendo dilungarmi, limiterò il mio intervento a un solo argomento, che è nel programma del Governo di cui mi onoro di fare parte, e della maggioranza che lo sostiene: ed è quello della riforma costituzionale della giustizia in corso di discussione in Parlamento. Sul cui merito però non entro, non perché non ve ne siano gli argomenti ma perché non ve ne è il tempo. Affronterò piuttosto una questione di metodo, che cade sotto la voce “confronto”, appena evocato dalla rappresentante del Consiglio Superiore della Magistratura.

Il gesto degli esponenti della magistratura associata di lasciare l’aula al momento dell’intervento del rappresentante del governo è impegnativo, ed è carico di significato. Non è originale: è stata una forma di protesta sperimentata una ventina di anni fa in occasione di altre leggi, quella volta ordinarie, di riforma della giustizia. In più, quest'anno ci sono i cartelli. Benché ripetuta, però non può lasciare indifferenti. 

Evito qualsiasi commento polemico, che sarebbe facile, ma non servirebbe a granché. Provo invece a comprenderne il senso, soprattutto per rispondere alla domanda “e domani, esaurita questa forma di protesta, che cosa succede?”.

È un gesto certamente coerente con la posizione assunta dall’Associazione Nazionale Magistrati prima che il testo della riforma fosse approvato dal Consiglio dei ministri e fosse presentato in Parlamento. Dico prima del CDM, perché il Ministro della giustizia Carlo Nordio ne aveva illustrato i contenuti ai rappresentanti della magistratura, e aveva avuto una risposta di rifiuto totale, perché la proposta era - come è ancora adesso - ritenuta irreformabile. Nell’occasione il Presidente dell’ANM disse che «tutta la magistratura associata in tutte le sue componenti è contraria alla riforma. Non si tratta di fare una trattativa di tipo sindacale».

Non voglio fare confronti con altre fisiologiche dialettiche nelle relazioni fra istituzioni, e fra istituzioni e parti sociali: le trattative sindacali possono essere snervanti, ma non credo che siano da qualificare in termini negativi, permettono sempre di fare dei passi in avanti. Quello che vorrei dire è ci sono, come è noto, organizzazioni sindacali particolarmente critiche nei confronti di questo Governo: ma la loro forte distanza rispetto alle scelte che facciamo non impedisce loro di sedersi ai tavoli del confronto, e lì di manifestare la loro opposizione, con toni anche aspri, ma anche di formulare proposte o modifiche, che talora vengono accolte.

Il gesto di alzarsi e di andarsene, cioè di rigettare la stessa interlocuzione, può avere differenti significati. Andiamo per esclusione: sono certo che non voglia dire contestare la legittimazione di questo Governo a produrre riforme importanti in materia di giustizia; e del Parlamento che lo sostiene di discuterle e di approvarle (spero di non sbagliarmi nell’escluderlo). Tanto più che si tratta di un disegno di legge che passa attraverso le procedure rafforzate e garantite proprie di una riforma costituzionale. Penso piuttosto che la ragione, come dichiarato, sia la radicale contrarietà verso il merito della riforma. 

Osservo però che la riforma osteggiata ha costituito parte non marginale del programma col quale la coalizione che oggi sostiene l’Esecutivo ha ottenuto il consenso degli elettori nel settembre 2022. La medesima Costituzione che oggi viene contrapposta alla riforma in discussione stabilisce, trovo quasi offensivo ricordarlo ai presenti, il diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). Non dice che se assumo un impegno con gli elettori e ne ricevo il consenso poi devo disattendere l’impegno assunto. 

Di fronte a un Governo sorretto da partiti che propone al Parlamento una legge di riforma è legittimo non condividere nulla. Ma perché rifiutare anche solo di parlarne? Perché uscire dai canoni della dialettica per entrare in quelli dell’alternativa ‘o tu o io’?

È qualcosa che non fa bene a nessuno. Non fa bene al Governo che ha avanzato la proposta: perché lo si priva di una voce qualificata con cui confrontarsi. Nelle mia esperienza di governo, sia quella attuale, sia quella - con altro ruolo - di qualche anno fa, ho sempre ritenuto il confronto, col Parlamento come con le parti sociali, un momento di arricchimento. Appartiene alla ordinaria dialettica farsi convincere durante la discussione che qualche passaggio sia migliorabile, o che meriti un approfondimento: i dogmi non fanno parte della dinamica politica. Accettare di dibatterne non significa condividere l’impianto della riforma: il dissenso può restare, senza rinunciare ad apportare qualche positiva rettifica.

Aggiungo che ritenere addirittura la propria presenza fisica incompatibile con quella del rappresentante del Governo, più che un problema di riguardo istituzionale pone un problema di prospettiva: e proprio in prospettiva mi permetto di chiedere alla magistratura italiana di non rifiutare l’invito al confronto, che ribadisco in questa sede a nome dell’intero Governo. Senza pregiudizi, come veniva ricordato prima citando Papa Francesco.

Una chiusura così drastica non fa bene neanche a chi la oppone. Abbandonare il tavolo del dialogo non è una manifestazione di forza, se mai di debolezza: se gli argomenti più radicali, quelli della completa inaccettabilità della riforma, fossero così ben fondati, perché non riferirli non sui cartelli, per slogan, dall’esterno, ma de visu, guardandosi negli occhi, articolandoli uno per uno e replicando alle eventuali risposte?

Vale per la riforma costituzionale come per le materie prima evocate, come l'immigrazione o il contrasto alla violenza sulle donne.

Con altra fondamentale componente del mondo della giustizia - quella degli avvocati - il dialogo è costante e, dal mio punto di vista, proficuo. Non sempre gli avvocati condividono le nostre scelte; ma ci parliamo, e insieme finora qualche obiettivo di comune interesse lo abbiamo raggiunto, per esempio sull’equo compenso o sulle norme in discussione a proposito di intelligenza artificiale: cito solo degli esempi, perché i tavoli di confronto sono tanti. 

Dunque, non prendo, signor Presidente, e - se non vi offendete - cari colleghi, la sedia vuota come mancanza di rispetto istituzionale. La prendo come una opportunità che si perde. La si perde sul piano delle relazioni interpersonali, sulle quali si fonda ogni interlocuzione. La si perde, ancora di più, sul piano delle relazioni fra istituzioni. Perché - lo dico nel modo più diretto e sincero - non abbiamo nessuna intenzione di fare una riforma contro i magistrati: vogliamo fare una riforma per i cittadini. Immaginavamo di raggiungere quest’obiettivo col contributo anche critico, anche fortemente critico, ma reale, dei magistrati. Abbiamo rivolto innumerevoli inviti in tal senso. Non poterne disporre è qualcosa che ci fa andare avanti comunque, ma ci rammarica. E per questo confido in un ripensamento: nell’interesse di quel popolo italiano nel cui nome ogni giorno voi rendete giustizia. Vi ringrazio.